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Il giorno 27 gennaio 2020, la comunità scolastica del Liceo Scientifico e del Liceo Classico, ha celebreto la Giornata della Memoria con una riflessione sulla condizione di discriminazione di genere, perpetuata ai danni delle donne all’interno dei lager.

In continuità con le attività già avviate dal Progetto “Le Indesiderabili”, potrà visionare il film intitolato “Vite parallele” di Sabina Fedeli, che narra la storia di Helen Mirren  e ripercorre attraverso le pagine del diario la vita di Anne e  la storia di 5 donne che, da bambine e adolescenti, sono state deportate nei campi di concentramento ma sono sopravvissute alla Shoah. 

La commemorazione della Shoah rappresenta ormai un valore acquisito della moderna coscienza

europea. Dall’anno 2000 in Italia questo valore è divulgato e protetto da una legge nazionale: è la

legge che fra l’altro individua nel 27 gennaio il “Giorno della Memoria”, allo scopo di “ricordare la

Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei,

gli/le italiani/e che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in

campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita

hanno salvato altre vite e protetto i/le perseguitati” (Legge 20 luglio 2000, n. 211, art. 1).

Il senso profondo della legge va comunque oltre l’obbligo a ricordare il passato, spesso

riassunto nella formula “Perché non accada mai più!” consegnata in eredità da Primo Levi.

Ricordare la Shoah e gli altri genocidi della nostra storia recente e diffonderne la conoscenza

significa, in termini più ampi ma non per questo generici, educare alla moderna cittadinanza

europea attraverso la promozione di valori e sentimenti alla base della pacifica convivenza fra

popoli, religioni ed etnie differenti, come la responsabilità individuale, la libertà democratica e

la lotta al razzismo.

Vittime della persecuzione e dello sterminio nazisti furono sia gli uomini che le donne di etnia

ebraica. Tuttavia, le donne - sia ebree che non-ebree - furono spesso soggette ad una

persecuzione eccezionalmente brutale da parte del regime. L'ideologia nazista prese di mira

anche le donne Rom (Zingare), quelle di nazionalità polacca e quelle che avevano difetti fisici o

mentali e che vivevano negli istituti. Interi campi, così come speciali aree all’interno di altri

campi di concentramento, furono destinati specificatamente alle donne. Nel maggio del 1939, i

Nazisti aprirono il più grande campo di concentramento esclusivamente femminile, quello di

Ravensbrück, dove più di 100.000 donne vi furono incarcerate tra la sua apertura e il momento in

cui le truppe sovietiche lo liberarono, nel 1945. Molte donne incarcerate nei campi di

concentramento crearono gruppi di mutua assistenza che permettevano loro di sopravvivere

grazie allo scambio di informazioni, di cibo e di vestiario. Spesso le donne appartenenti a questi

gruppi provenivano dalla stessa città o dalla stessa provincia, avevano lo stesso livello di

istruzione o condividevano legami familiari.

Dall’IISS “MARONE-CANUDO GALILEI”  la rubrica “VITE PARALLELE”

All’interno del Progetto “Le indesiderabili”, concepito come occasione di riflessione sulla condizione delle donne nel periodo delle leggi razziali introdotte dal regime nazista fino alla condizione attuale della donna, gli studenti dell’Istituto superiore “MARONE-CANUDO GALILEI” nella rubrica intitolata “Vite parallele” elaboreranno degli articoli attraverso la tecnica dell’immedesimazione.  I versi di Primo Levi nel celebre componimento “Se questo è un uomo” non possono lasciare indifferenti: “Considerate se questa è una donna, senza più capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno”… Vittime della persecuzione e dello sterminio nazisti furono sia gli uomini che le donne di etnia ebraica. Tuttavia, le donne - sia ebree che non-ebree - furono spesso soggette ad una persecuzione eccezionalmente brutale da parte del regime. L'ideologia nazista prese di mira anche le donne Rom (Zingare), quelle di nazionalità polacca e quelle che avevano difetti fisici o mentali e che vivevano negli istituti. Interi campi, così come speciali aree all’interno di altri campi di concentramento, furono destinati specificatamente alle donne. Nel maggio del 1939, i Nazisti aprirono il più grande campo di concentramento esclusivamente femminile, quello di Ravensbrück, dove più di 100.000 donne vi furono incarcerate tra la sua apertura e il momento in cui le truppe sovietiche lo liberarono, nel 1945. Molte donne incarcerate nei campi di concentramento crearono gruppi di mutua assistenza che permettevano loro di sopravvivere grazie allo scambio di informazioni, di cibo e di vestiario. Spesso le donne appartenenti a questi gruppi provenivano dalla stessa città o dalla stessa provincia, avevano lo stesso livello di istruzione o condividevano legami familiari. Infine, altre donne furono in grado di salvarsi perché le SS le trasferirono nei reparti destinati al rammendo degli abiti, nelle cucine, nelle lavanderie o nei servizi di pulizia, e molte di loro furono grandi musiciste chiamate ad arrangiare brani musicali, eseguirli e costruire finanche degli strumenti musicali. La donna di ieri e  di oggi sperimenta una discriminazione legata al genere. Recuperare attraverso la riflessione storico, filosofica e giuridica questa consapevolezza contribuisce a sviluppare nelle nuove generazione un desiderio di equità e accresce il rispetto e il valore della diversità non come esclusione ma come ricchezza.

"Donne senza nome"

"Le indesiderabili"

Riflessioni…dalla testimonianza di Goti Bauer

 

Prima delle leggi razziali del 1938 tutto procedeva regolarmente, poi da un giorno all’altro le cose cambiarono, alcune divennero proibite, la vita si fece difficile, quando i tedeschi invasero l’Italia estendendo le loro leggi antisemite, tutto precipitò, era l’otto settembre del 1943.

Le faccende militari, che restino agli storici!!!

Noi, diversamente, cogliamo sfumature che il tempo ci consente di cogliere.

Il diverso, a volte, può essere interpretato dal tempo.

La testimonianza della sopravvissuta, vista in controluce rispetto al primo ventennio del Duemila, delinea l'incommensurabile abisso che, destinato a rimanere tale, separa i significati di parole uguali ormai solo per sintassi.

Pensiamo a semplici gesti come una carezza o uno sguardo e ora ovviamente ci verrà spontaneo chiederci: cosa c’è di particolare?

Il punto è che ci dobbiamo pensare immedesimandoci in un qualsiasi prigioniero di un campo di concentramento, qui tutto cambia.

Per comprenderne meglio il significato di alcuni “semplici” atti o di alcune parole, dobbiamo cambiare prospettiva, punto di vista.

Partiamo da una carezza, un semplice gesto di conforto, che può essere alla base di un’amicizia o dell’amore fra un genitore e un figlio, oggi sembrerebbe una cosa semplice e normale, talvolta anche banale.

Pensate ad una madre che fa una carezza ad un figlio, un gesto tanto prezioso quanto sottovalutato, ma che esprime tutto l’amore che a parole non si sa esprimere, o che non si può esprimere.

Pensate ad una madre che accarezza suo figlio, sapendo che deve morire, sapendo che non lo rivedrà mai più; sentire che qualcosa di terribile sta per accadere e avere solo la possibilità di una carezza, un gesto pieno di tutto: amore, conforto, disperazione e forse di speranza.

Una speranza lontana, che si tramuta, con uno schiocco di dita, in “sopravvivere” ma sopravvivere non è vivere.

Facciamo un passo indietro e riflettiamo sul termine: sperare, era difficile sperare davanti a tanta impotenza, era più facile che si diventasse fragili, provati fisicamente e psicologicamente, la speranza è come se si trasformasse diventando un “disperare”.

Un sentimento era capace di diventare il suo contrario in un contesto così terrificante.

Pensate ancora all’impotenza di una madre che si dispera nel vedere suo figlio piangere e che non sa come fare per tranquillizzarlo e soprattutto per confortarlo, ma come farlo se lei è disperata?

Con un semplicissimo gesto, una carezza, che in incognito indossa il più difficile degli addii, e quando la distanza non permetteva il contatto, tutto questo era affidato ad uno sguardo.

L’importanza che uno sguardo assume in momenti di estrema disperazione, non ha pari oggi e pari non avrà, mai più. Nella testimonianza della Bauer lo sguardo oscilla, assume il significato di saluto, di conforto, di confronto, di addio; “oscilla” è diventato uno delle SS che ti guarda, che ti sceglie, che decide che sei tu quello che non è perfetto, decide che sei tu quello la cui vita sarebbe finita quel giorno, senza appello, senza ritorno.

"Non ricordo proprio di aver fatto progetti per il futuro, perché non era possibile", in queste parole si comprende tutta la desolazione, la solitudine e il destino che gli altri hanno deciso per te.

Dunque restano i ricordi l'unico modo per combattere la disumanizzazione, l'unico modo per ricordare che la vita è bella, o almeno, lo era stata sino ad allora.

Ricordare per resistere, per non dimenticare e per non permettere che la storia si ripeta, affinché non arrivi mai più quel momento in cui affidi l'ultimo sguardo alla solitudine e capisci che è l'unica cosa che rimane. Il rimanere da soli, non avere nessuno al tuo fianco con cui condividere le tue sofferenze, le tue paure. Il voltarsi e non trovare niente, un sostegno, un sorriso, un volto amico che possa ridurre lo sconforto. L'essere allontanati da casa, strappati dalle braccia dei propri affetti, rimanere da soli sapendo di essere condotti verso la morte, non potersi opporre è e sarà sempre terribile.

Non avere qualcuno che possa capire ciò che stai provando è di per sé una morte interiore, anche peggiore della morte del corpo.

Al giorno d'oggi, invece, la solitudine è una cosa molto più relativa, non necessariamente dovuta ad avvenimenti concreti. Non scorgere la luce alla fine del tunnel, chiudendoci in noi stessi, sentendoci soli perché gli altri, a volte, sono incapaci di capire ciò che sentiamo, ciò che vorremmo dire ci rende vulnerabili e soli, soli anche in mezzo alla gente.

Chissà come si sentirebbero oggi i deportati se sapessero dell'indifferenza del mondo di fronte a ciò che è successo e che potrebbe risuccedere, forse si sentirebbero soli ancora una volta.

La gente che non accetta un no, che può permettersi tutto, che non apprezza ogni singolo momento, che non è in grado di comunicare tramite un semplice sguardo, dovrebbe prendersi un attimo di pausa dal mondo per ricordarsi di chi è stato privato di ogni singola cosa ed ha lottato per poter essere amato un'ultima volta.

Sono incolmabili le differenze createsi tra le parole a distanza di pochi decenni.

Eppure esiste un filo conduttore.

Esiste se gli permettiamo di farsi largo nelle nostre vite, questo filo è di un tessuto ricamato con empatia, partecipazione, interesse, fervore, tuttavia è un filo fragile, facile da spezzare se minacciato dal disinteresse stoicismo, dal negazionismo e dalla non curanza.

La differenza la facciamo noi, non perdiamo tempo!!!

 

realizzato da Addabbo Giovanni, Faggiolino Gaia, Falcone Antonio, Laneve Adriana.

Dalla testimonianza di Goti Bauer

Leggendo la testimonianza si nota la presenza di alcune parole di uso comune che risaltano per il loro valore e per la portata del loro significato, tra queste ci sono i termini:

carezza, selezione, vanità, sguardo

Rimaniamo colpiti dal fatto che il significato di queste cambia in relazione al contesto e ai tempi storici. Dalle parole della sopravvissuta ai campi di sterminio comprendiamo che la carezza assunse un significato profondo, un gesto significativo, unico e ricolmo di emozioni. La carezza delle madri ai loro figli nel momento della separazione arrivati nei lager era un addio implicito e straziante per le madri che ne comprendevano il vero senso.  In quel contesto, la carezza assumeva un significato estremamente drammatico. Le madri cercavano di racchiudere e incanalare in quel gesto tutto l’amore, la protezione e il dolore che provavano per i loro figli, cercando di rassicurarli ogni oltre evidenza. In un’unica semplice e fugace dimostrazione d’affetto si racchiudeva il puro amore e istinto materno.

Questo ci fa riflettere su come al giorno d’oggi si diano per scontate troppe cose, nella realtà moderna si è completamente persa l’attenzione e la capacità di carpire il significato e il valore dei piccoli gesti, che pian piano si sono svuotati di significato, perdendo di importanza, non c’è profondità oggi in una carezza e a volte la rifiutiamo, incapaci di coglierne la portata affettiva e rassicurante, anzi è considerata una dimostrazione troppo affettuosa e a volte imbarazzante.

Nelle parole della Bauer anche il termine selezione è sconcertante…riguarda la selezione all’arrivo e durante la permanenza nei lager, salta subito all’’occhio il modo disumano con cui venivano trattati i deportati, come venivano scaraventati giù dai treni, strattonati, minacciati, umiliati, privati dei vestiti e della libertà di parola, costantemente sotto il mirino degli SS a cui era affidato il compito di una delle tante e ingiuste selezioni. La prima avveniva appena giunti al campo, dove si era sottoposti a selezione per qualunque cosa, anche per morire in un giorno piuttosto che in un altro. Si decideva della vita e della morte molto velocemente, con un cenno del dito, senza alcuno scrupolo e Goti Bauer afferma che tutt’ora ha qualche difficoltà nell’usare questo termine. Invece per “noi”, oggi, in questo tempo storico la selezione ha un peso relativamente leggero. Oggi si viene selezionati per un esame, per una prova, per bravura e predisposizione in un determinato campo, oggi si vuole essere selezionati, alla selezione è legato un premio, un merito, tutt’altro rispetto alla selezione nei campi di sterminio, dove la gente veniva selezionata per andare a morire. Morire nei forni e venir fuori dai camini da cui, appunto, usciva “un odore acre di carne umana bruciata, che ti invade l’animo prima che le narici, niente più ha importanza”.

Goti Bauer risponde circa la questione della diversa esperienza fatta dagli uomini rispetto a quella vissuta dalle donne, a cui venivano tagliati i capelli, appena giunte nei lager. Lei sostiene che la sofferenza dipendeva esclusivamente dalla sensibilità individuale e non dalla differenza di genere, perché non c’era posto per la vanità, l’umiliazione per l’aspetto fisico era irrilevante rispetto alla drammaticità di tutta la situazione. Erano presenti anche donne in stato interessante che avrebbero necessitato di riservatezza, calma e luoghi sicuri, inesistenti nei campi di concentramento dove dopo aver partorito i figli venivano strappati alle loro madri immediatamente, per essere uccisi o per rimanere “destini ignoti”. La sofferenza regnava sovrana: fame, freddo, fatica e costante paura non lasciavano posto a nient’altro. Non esistevano problemi di vanità tra donne perché avendo subito tutte la rasatura, obbligatoria al loro arrivo, e indossando tutte stracci e scarpe spaiate, l’umiliazione reciproca passava totalmente inosservata rispetto all’orrore in cui erano, tutti accumunati dallo stesso destino. Oggi la vanità è spesso un biglietto da visita che esibiamo con orgoglio senza pensare che è solo apparenza.

Tra le righe della testimonianza si nota un coinvolgimento maggiore da parte dell’autrice nel momento in cui descrive l’ultimo sguardo scambiato con sua madre dopo la prima selezione nei campi di concentramento, uno sguardo che non dimenticherà mai, indelebile, “definitivo”, un saluto che preannunciava la sua fine. In uno sguardo la sofferenza di una madre senza scelta, diverso dagli sguardi delle SS, che con i loro cani, passavano camminando avanti e indietro, ridacchiando davanti alle deportate nude, bagnate, rasate, infreddolite e sconvolte. Quelli erano sguardi che aggravavano la condizione di quelle persone a cui avevano tolto anche la dignità e che umiliavano volontariamente mentre erano in attesa che qualcosa accadesse. Tutto aveva un solo scopo, la degradazione della “razza inferiore”.

 

realizzato da Cantore Martina, Giannico Margaret, Piscazzi Francesco.

"Hannah Arendt Discorso finale "

"Liliana Segre"

"Parità di genere"

realizzato dalla professoressa Labbate

L’uguaglianza è la chiave della società, il segreto dell’equilibrio, un concetto diffuso, tuttora difficile da applicare. Ingiustizie, divari, soprusi, fanno ancora parte del mondo in cui viviamo. Si pensi alla posizione della donna. Nonostante i continui tentativi di protezione ed emancipazione, numerosi sono gli abusi, non solo dal punto di vista fisico, ma anche psicologico e morale.

Fra gli obiettivi dell’Agenda 2030 a supporto dello sviluppo sostenibile, le Nazioni Unite si sono prefissate anche l’uguaglianza sociale e di genere. Un mondo in cui ogni donna, adulta o ragazza, possa godere di una totale uguaglianza priva di qualsiasi barriera legale, sociale ed economica.

LA FAMIGLIA DEVE ESSERE SOLO COMPITO DELLE DONNE?

Il cosiddetto “lavoro domestico” a cui si aggiunge anche quello di assistenza a parenti anziani o malati, in quasi tutte le civiltà inclusa quella italiana è stato affidato soprattutto alle donne, comprese le bambine destinate a non proseguire gli studi o a non frequentare affatto la scuola per “aiutare la madre”, a sua volta donna.

IL PREGIUDIZIO

Un grosso ostacolo all’attuazione dagli articoli 2 e 3  della costituzione e alla legislazione a tutela delle donne è il pregiudizio.

Il pregiudizio sulle donne è il più antico della storia umana, che la delinea come oggetto di possesso e inferiorità. La donna viene privata della propria dignità, del diritto di decidere, su come gestire la propria vita e il proprio corpo. È terribile come sin dall’antichità si sia radicato questo atteggiamento misogino, di possesso e di violenza e ancora più drammatica è l’idea radicata nell’uomo, che questa sia una volontà della donna. Molti credono che la donna ami essere presa con la violenza e ogni suo rifiuto viene visto come vezzo.

Ostentare un bel fisico, una minigonna o una maglia poco accollata, non devono nuocere la sua reputazione con critiche ed appellativi quali “poco di buono o donna di facili costumi”.

Simili giudizi scaturiscono dall’ignoranza e da una mentalità retrograda non solo maschile. Quando la donna tenta di emanciparsi e sottrarsi a questa condizione diventa un pericolo per la società.

TOLLERARE L’INTOLLERABILE

La donna tollera spesso l’intollerabile.  Nasce in lei la convinzione che sia colpa sua, che sia lei l’errore e che la violenza sia simbolo di affetto e amore. Non comprende che gli uomini, spesso, per nascondere le loro debolezze usano quello che hanno di più: la forza.

Spesso la violenza avviene in seguito a tradimento o allontanamenti come gesto di non accettazione della fine di una storia, oppure come puro desiderio di possesso. Molte giovani tra i 16-17 anni subiscono questi maltrattamenti, vengono coperte di insulti, minacce e continui controlli che molte volte sfociano nello stalking, segnando per sempre la loro vita.

In Italia 142 donne sono state uccise nel 2018 e 95 nei primi dieci mesi del 2019.

Giovani, anziane, minorenni, non esiste un profilo delle vittime. Appartengono ad ogni età e classe sociale così che non è possibile fare un identikit del molestatore. Di solito è il marito o l'ex o il partner. Parliamo di un bollettino di guerra, un profilo grave della nostra società. Il femminicidio è un evento molto frequente. Si registra uno ogni 60 ore.  Le lancette girano è sempre più donne scoprono che il loro carnefice ha le chiavi di casa.

Si comprende il dolore delle giovani che non hanno potuto vivere l’amore che tanto avevano sognato o di coloro, mogli, madri che inconsciamente sono state travolte da questo uragano di oscenità, o di quelle che fisicamente sono state segnate per sempre, e ogni giorno guardandosi allo specchio ricordano l’accaduto.

È bene dire no alla libertà limitata, agli acidi gettati sul volto, ai lividi, alle minacce, allo stalking, alle lacrime versate da parte di tutte quelle donne che non hanno mai avuto la forza di ribellarsi.

È bene dire si,  all’informazione, alla sensibilizzazione, a giornate come il 25 novembre -  GIORNATA INTERNAZIONALE PER L’ELIMINAZIONE DELLA VIOLENZA CONTRO LE DONNE.

Che la donna trovi sempre la forza di alzarsi, di cercare aiuto e cosa più importante DENUNCIARE.

E l’uomo, nella cui mentalità è radicata una sovrastruttura ideologica di natura patriarcale, volta ad annientare l’identità della donna, e che esercita in maniera irrefrenabile una qualunque forma di violenza, paragonata alla dipendenza all’alcool e alla droga, trovi il coraggio di AUTODENUNCIARSI. 

Nell’evocare una frase di Rita Levi Moltalcini riferita a uomini e donne:

“ La testa. C’è chi l’abbassa, chi la nasconde e chi la perde. Io preferisco chi la usa”.                                                       

 

                                                                                                     

realizzato da Matilde Campanella – Maria D’Addabbo - Carmen Eramo

Simone Maselli - Manuela Mastrovito – Carlo Quatraro

"Discriminazione di genere"

Caratteri specifici della deportazione femminile di Giuliana Fiorentino Tedeschi

La domanda è questa: la prigionia femminile nei Lager ha avuto caratteri propri, distinti da quelli maschili? Si può parlare di una specificità della prigionia femminile? Le donne per la loro costituzione fisica, per la natura della loro psiche, sono state esposte a sofferenze più profonde e più disparate in confronto a quelle subite dai loro compagni di prigionia? La letteratura di testimonianza è stata prodotta quasi tutta da uomini, mentre le donne hanno parlato poco delle proprie esperienze. Forse per questo motivo si è ingenerata e diffusa l'opinione che deportazione maschile e femminile possano combaciare e anzi addirittura sovrapporsi.

Questo è il ritratto di una donna al suo primo impatto con la realtà del Lager, cinquanta e più anni orsono. A quel tempo una donna teneva più di oggi alla propria riservatezza fisica, alla cura del proprio corpo, perfino alla ricerca estetica di arrnonia nel vestiario e non esibiva senza traumi la propria nudità. Eccola nel Lager, ha appena subito sul suo corpo la violenza di mani estranee che, con rasoi poco affilati, le hanno depilato le parti intime, le è stato impresso un marchio sul braccio sinistro, ha provato l'orrore del freddo metallico della macchinetta tosatrice sulla cute, ha visto le ciocche della sua capigliatura cadere morbidamente ai suoi piedi. L'essere nuovo che si rivela a se stessa è un'altra persona, del tutto spersonalizzata perché perfino alle mani mancherà la materia per tentare una modesta acconciatura. Brutalmente le gettano dei capi di vestiario per ricoprirsi, ma le mutande maschili non hanno elastici e cadono, le calze si ripiegano sulle gambe, le scarpe appositamente spaiate rimangono prigioniere del fango spesso e sdrucciolevole e compromettono l'equilibrio. Più fortunati gli uomini: essi hanno un'uniforme, che li difenderà poco dal freddo, ma permetterà di inserirli in una categoria, quella dei galeotti lavoratori. Per la donna non c'è tregua, perché il flusso mestruale si ripropone e non esiste materiale per difendersi. Chi è fortunata trova in terra uno straccio, se è costretta a lavare le mutande, deve rindossarle bagnate. Lo stress per fortuna a poco a poco ci libera dal tributo mensile alla natura, ma si ha la sensazione di ridursi a esseri asessuati. Mai ho sentito nel Lager una donna parlare di un uomo come di un amante. E mentre la sessualità delle donne si spegne, proprio l'apparato genitale femminile attrae l'interesse dei criminali nazisti che si spacciano per scienziati. Da giovani prigioniere (anche diciottenni) e donne maritate si prelevano campioni di tessuto dell'utero per essere in grado di giungere a diagnosi tempestive di eventuali tumori, con raggi X si sterilizzano le ovaie, si pratica l'isterectomia, si inietta nell'utero un liquido (nitrato d'argento o formalina?) a detta dei medici sterilizzante, pratiche queste che dovevano servire a sterilizzare le razze inferiori.

Sempre alle donne toccò la prova più sconvolgente, affrontare la maternità nel Lager. Nei primi anni dell'esistenza di Birkenau (1942-43), quando diveniva evidente che una donna aspettava un bambino, non restavano in vita né la madre né il figlio. Poi ci fu una modifica alla prassi consueta: la madre poteva partorire e continuare a prestare il suo contributo lavorativo, il bambino invece non aveva diritto alla vita, veniva soppresso con iniezioni di fenolo o soffocato in una tinozza d'acqua e quindi bruciato in una stufa. Nel caso di gravidanze portate segretamente a termine, le madri furono obbligate a soffocare o ad avvelenare il proprio bambino. Molte spose entrate in campo durante la mia prigionia, ignare di essere incinte, hanno portato a termine la gravidanza senza essere minimamente esonerate dai lavori pesanti, hanno partorito un bimbo vitale, sottratto subito alla madre per essere immediatamente destinato al crematorio. Ne ho incontrato due a Birkenau, una ungherese e una francese, che ignoro se siano sopravvissute. Altre donne, catturate nei paesi d'origine, furono deportate mentre avevano in corso l'allattamento di una creatura appena nata.

"Donne nei lager"

Il lager di femminile di Ravensbrück. costruito nel 1939 a 80 km a nord di Berlino, era destinato all’internamento di donne e bambini, e circa 1000 donne italiane vi sono state deportate, dal giugno del ’44 ad aprile del ’45.
Il video-documento intende dare voce alla loro storia e alla specificità della deportazione femminile. Attraverso le parole testimoniali delle ex-deportate, a cui donne di oggi hanno dato voce in un ideale passaggio di testimone, accompagnate da fotografie storiche e da immagini realizzate dall’autrice,  il video ripercorre le tappe della deportazione dall’ingresso nel lager fino al rientro delle sopravissute in Italia, ricomponendo in un affresco corale i tratti di una tragedia epocale.

https://www.youtube.com/watch?time_continue=27&v=_g6wJGYVGH4&feature=emb_title

"Trudie Birger e la sua testimonianza sulla Shoah"

SOLO NUMERI O INQUIETANTE REALTÀ?

Secondo i dati forniti dall' ISTAT il 31,5% delle donne tra i 16 e 70 anni (6 milioni 788 mila) ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subìto violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila). Queste violenze sono perpetrate da partner o ex partner, in particolare il 5,2% (855 mila) dal compagno attuale e il 18,9% (2 milioni 44 mila) dall’ex. Tanto che la violenza sembra essere la causa principale per la rottura  della relazione.

La violenza fisica è più frequente fra le straniere (25,7% contro 19,6%), mentre quella sessuale più tra le italiane (21,5% contro 16,2%).

Al fine di comprendere un andamento dello sviluppo della questione l' Istituto di ricerca italiana ha confrontato i dati  dei cinque anni precedenti al 2006 con quelli del 2014 cogliendo importanti segnali di miglioramento: diminuiscono la violenza fisica e sessuale da parte dei partner attuali e da parte degli ex partner; non si intacca però lo zoccolo duro della violenza nelle sue forme più gravi (stupri e tentati stupri).

Oltre alla violenza fisica o sessuale le donne con un partner, subiscono anche violenza psicologica ed economica, cioè comportamenti di umiliazione, svalorizzazione, controllo ed intimidazione, nonché di privazione o limitazione nell’accesso alle proprie disponibilità economiche o della famiglia. Nel 2014 sono il 26,4% le donne che hanno subito violenza psicologica o economica dal partner attuale e il 46,1% da parte di un ex partner seppur è risultata in forte calo dal 2006.

Inoltre una percentuale non trascurabile di donne ha subito, oltre a forme di violenza psicologica, anche atti persecutori (stalking). Si stima che il 21,5% delle donne fra i 16 e i 70 anni (pari a 2 milioni 151 mila) abbia subito comportamenti persecutori da parte di un ex partner nell’arco della propria vita. Se si considerano le donne che hanno subito più volte gli atti persecutori queste sono il 15,3%. Gli autori di stalking sono maschi nell’85,9% dei casi a fronte di un 14,1% di femmine. Tra queste la grande maggioranza (il 78% delle vittime) non si è rivolta ad alcuna istituzione e non ha cercato aiuto presso servizi specializzati, cosa ancor più grave, tra queste una su due afferma di non averlo fatto perché ha gestito la situazione da sola.

Alla luce di questi dati molto interessante è l'articolo realizzato da Denise Ferrero sul giornale 'La Repubblica' intitolato 'LA VIOLENZA SUL CORPO CAMBIA IL DNA?'

La giornalista, infatti, afferma che il DNA non è dato per sempre. Stress e traumi lo possono modificare nelle donne che hanno subito violenza accelerando l’invecchiamento e aumentando l’insorgenza di malattie. Tutto ciò è dovuto all’accorciamento dei telomeri del DNA come già constatato dagli studi sui veterani di guerra o sopravvissuti ai campi di concentramento. Da più recenti studi svolti sul materiale genetico di donne vittime di violenza a confronto di donne non violentate, sono emerse significative differenze relative ad alcuni processi che regolano l’espressione di geni coinvolti nello stress. Per la prima volta, continua a scrivere la Ferrero, si cerca di comprendere se le differenze osservate potranno indurre a effetti a lungo termine, compromettendo così il loro stato di salute futura. Perciò l’obiettivo fondamentale è la possibilità di identificare dei protocolli terapeutici di prevenzione, costruiti sui marker biologici identificati. Il sogno che si spera di realizzare è una biobanca per donne, destinata a cancellare le ferite della violenza anche se scolpite a livello molecolare.

 

 

Sconcertante è che ancora molto presenti sono in Italia, gli stereotipi di genere, correlati alla visione non del tutto emancipata che l’uomo ha della donna. Per l’uomo più che per la donna è molto importante avere successo nel lavoro; l’uomo è meno adatto ad occuparsi delle faccende domestiche; è l’uomo a dover provvedere alle necessità economiche della famiglia. Quello meno diffuso, invece, è che spetta all’uomo prendere decisioni più importanti riguardanti la famiglia. Gran parte della popolazione, al crescere dell’età e tra i meno istruiti, si ritrova in questi stereotipi. Gli stereotipi sono anche collegati alla violenza di coppia sulla donna poiché l’uomo ritiene la donna di sua proprietà perciò soggetta a controlli della sua vita sociale. Altri, e molto gravi, riguardano coloro che giudicano false le accuse di violenza sessuale poiché mal interpretano il volere della donna. Per concludere uno stereotipo fortemente diffuso tra la popolazione è quello che riguarda le correlazioni tra le violenze subite e il modo di vestire delle donne oltre che di fare uso di alcolici e stupefacenti. Dato inquietante che  trova ,purtroppo, disparità di pensiero anche tra i più colti e giovani.

 

realizzato da Simone Maselli e Carlo Quatraro

È PIÙ ABILE L’UOMO O LA DONNA?

Le donne, ancora oggi, nella maggior parte dei settori professionali sono discriminate nel salario, nell’accesso alle posizioni di vertice, nella specializzazione in ambiti scientifici e tecnologici, e sono considerate da sempre oggetto di quello che il sociologo Pierre Bourdieu ha definito “il dominio maschile”. Significative e persistenti disuguaglianze di genere sono anche registrate dal  Rapporto 2018 sulla Condizione occupazionale dei laureati, nonostante la Costituzione dichiari, negli articoli 3,37 e 51, che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore e che la sua attività lavorativa non le deve impedire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare. In Europa le donne che lavorano continuano ad essere meno degli uomini, infatti il tasso di occupazione femminile tra i 20 e i 64 anni resta di 11,5 punti inferiore a quello dei coetanei maschi: il 66,5% contro il 78%. Un ulteriore sbilanciamento si registra nel lavoro dipendente, dove le donne sono il 45%, e in quello indipendente, dove rappresentano il 31%. Questo esprime una difficoltà femminile nel promuovere e gestire attività professionali e/o imprenditoriali per motivi culturali e strutturali, per esempio la difficoltà di accesso al credito: il 65% delle imprese nate tra il 2010 e il 2015 era gestito da donne, ma molte hanno avuto un’esistenza breve per mancanza di aiuti finanziari. In  ambito occupazionale, nei percorsi di Ingegneria, Professioni Sanitarie ed Economico-Statistico, le differenze in termini contrattuali e retributivi tra uomini e donne permangono, sempre a favore dei primi. In Italia, in ambito politico, la presenza femminile è stata garantita dalle quote rosa ma, nonostante questi strumenti normativi finalizzati a tutelare la parità di genere, l’Italia risulta essere tredicesima in Europa per percentuale di donne ministro, e sotto la media europea del 30-40%. Sono solo 11, tra ministri e sottosegretari, le donne del governo Conte, la percentuale più bassa degli ultimi anni.  Come affermato nell’articolo del quotidiano La Repubblica ‘l’Europa è delle donne’ di martedì 10 dicembre 2019, la nostra nazione risulta essere esclusa dalla rivoluzione culturale a cui si sta assistendo nell’ultimo periodo in tutta Europa. Nel dicembre 2019 la 34enne Sanna Marin è diventata prima ministra della Finlandia, alla testa di una coalizione di partiti tutti guidati da donne. Questo risultato non è un caso isolato, ma solo la punta dell’iceberg di una dinamica nuova, che vede molte donne ricoprire importanti cariche come Christine Lagarde che tiene il timone alla Banca Centrale Europea. In Italia, invece, sembra che ci siano insormontabili ostacoli che si frappongono alla realizzazione della parità di genere nelle posizioni di vertice della politica: su venti presidenti di Regione, l’unica donna è Donatella Tesei, di recente eletta in Umbria. Inoltre, fino ad oggi, mai nessuna donna ha guidato un governo o è mai stata eletta al Quirinale. In questo modo l’Italia si qualifica come il Paese con la classe politica più retrograda dell’Unione, tagliata fuori da una rivoluzione culturale, che attraverso le donne alla guida della cosa pubblica, si manifesta nel linguaggio della politica, nella sensibilità alle problematiche della cura, nella prevenzione della violenza sociale e di genere.

realizzato da Maria D’Addabbo e Carmen Eramo

IN MEMORIA DELLE VITTIME DELLA SHOAH

 

“Dimenticanza è sciagura, mentre memoria è riscatto.” Con questa citazione la pubblicista tedesca AnnalieseKnoop-Graf ci invita a non dimenticare, anzi a ricordare e tramandare ai posteri ciò che è avvenuto durante gli atroci anni della Shoah. Per questo motivo noi alunni della classe 2^A, guidati dalla professoressa Grazia Procino, abbiamo intrapreso un nuovo percorso incentrato sulla lettura e la discussione di alcune poesie scritte o dalle stesse persone deportarte nei campi di concentramento come lo scrittore francese Jean Cayrol, oppure da altri scrittori e poeti fra cui Erri De Luca e Antonella Anedda, “spettatori” esterni che hanno contribuito a dar voce a questo doloroso capitolo del passato.  Ciascuna poesia sprigiona un evidente senso di malinconia, avvilimento e paura; quest’ultimo stato d’animo è stato il tema dominante di moltissime poesie fra cui quelle di Primo Levi, sopravvissuto alla Shoah, il quale si è sentito sempre in colpa per non essere deceduto. Questo senso di colpa lo ha logorato e prostrato e ne ha condizionato l’esistenza tanto che una volta tornato nella sua città natale, Torino, si suicidò.  Egli racconta in modo così inappuntabile e meticoloso le vicende, i timori delle persone che vissero nei campi di concentramento tanto da far venire i brividi. Uomini, donne e bambini venivano dapprima separati e impiegati nei lavori forzati e in seguito dopo averli ridotti all’osso venivano martoriati ed uccisi con le pratiche più crudeli. Fra le varie testimonianze compare anche quella di Nelly Sachs, poetessa nata a Berlino nel 1891, figlia di un industriale ebreo. Dopo aver ricevuto l’ordine di presentarsi a un campo di lavoro, nel 1940, riesce a fuggire in Svezia, dove si stabilisce e vivrà per tutta la vita. Nel 1947 viene pubblicato il suo primo libro di poesia. Nel 1950 inizia una serie di lunghi periodi di ricovero in ospedali psichiatrici. Dagli anni Sessanta la fama di Nelly Sachs diventa internazionale e nel 1966 riceve il premio Nobel. Muore a Stoccolma nel 1970.  Nel 1966 Einaudi ha pubblicato la raccolta “Al di là della polvere” e nel 1971 un’antologia delle “Poesie”. Qui di seguito viene riportata una sua poesia che abbiamo letto e commentato in classe:

Oh, i camini

sulle ingegnose dimore della morte,

quando il corpo di Israele si disperse in fumo

per l’aria-

lo accolse, spazzacamino, una stella

che divenne nera

o era forse un raggio di sole?

 

Oh i camini!

Vie di libertà per la polvere di Job e Geremia-

chi vi ha inventato e, pietra su pietra, ha costruito

la via per i fuggiaschi di fumo?

 

Oh, le dimore della morte,

invitanti per la padrona di casa

altrimenti ospite-

Oh, dita

che posate la soglia

come un coltello tra la vita e la morte-

 

Oh, camini,

oh, dita,

e il corpo di Israele in fumo per l’aria!

 

Leggere queste testimonianze è straziante e lacerante. Pensare che ci sia stato un uomo che abbia architettato e messo in atto queste atrocità è aberrante. Poter solo pensare che dei bambini, delle donne e degli uomini siano stati letteralmente bruciati vivi è inconcepibile. Per questo è fondamentale ricordare: affinché ciò che milioni di persone hanno subito sulla propria pelle non accada mai più.

 

realizzato da Lamanna Stella

POESIA: UN MEZZO PER NON DIMENTICARE

La professoressa Grazia Procino ha guidato noi alunni della 2^A  in un percorso molto arduo: quello dell’odio e del dolore. La storia della nostra specie è sempre stata segnata dall’odio, dalla malvagità e dalle guerre e non dagli atti d’amore. Forse perché l’amore è meno confortevole e spesso faticosissimo da esprimere a causa del nostro egoismo. O forse perché l’amore e gli atti d’amore esistono, ma sono quasi invisibili. Un evento che ha segnato la storia e che mostra il potere del male e dell’odio è la Shoah (termine che può essere tradotto con “tempesta devastante” o “catastrofe”). La professoressa ha permesso che noi sviluppassimo un approccio creativo e critico e che guardassimo la Shoah da un nuovo punto di vista, non quello dei libri di storia, ma quello di coloro che avevano affrontato i campi ed erano pronti a raccontare la loro tortura. Abbiamo analizzato diverse poesie e capito come lo scopo degli autori sia di restituire alle persone trascurate dalla storia, il giusto spazio che meritano. Nonostante rievocare quegli avvenimenti porti tanto dolore, i poeti sentono il dovere civile e morale di raccontare affinché le situazioni passate non si ripropongano nel futuro. Quello che è stato, infatti, può ritornare se non siamo attenti e vigili. La testimonianza è legata alla letteratura e alla poesia, poiché solo il gesto artistico può dare futuro alla memoria, solo attraverso l’arte la memoria può diventare filo tra generazioni. Tra le poesie analizzate voglio ricordare “Auschwitz” di Charlotte Delbo. La scrittrice nasce nel 1913 in Francia e nel 1936 sposa Georges Dudach con il quale svolge un’intensa attività clandestina nel corso dell’occupazione nazista della Francia. Nel marzo del 1942, viene arrestata dai tedeschi insieme al marito che, di lì a poco sarà fucilato, mentre lei, dopo un breve soggiorno in carcere, il 23 gennaio verrà deportata con altre 229 donne ad Auschwitz-Birkenau. Charlotte Delbo è stata un consiglio di lettura di Primo Levi, che riconosceva in lei non solo la compagna di deportazione, ma anche la compagna di scrittura, sopravvissuta consapevole della sfida di raccontare la memoria di Auschwitz attraverso la letteratura affinché diventasse storia di tutti. I suoi libri sulla memoria della deportazione, sono considerati tra i più importanti della letteratura di testimonianza. Nella poesia che segue la scrittrice rievoca la sua prigionia nei campi.

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Auschiwitz

Questa città dove passavamo

era una città strana.

Le donne portavano cappelli

cappelli posati su boccoli.

Avevano anche scarpe e calze come in città.

Nessuno degli abitanti di questa città

aveva un volto

e per non confessarlo

tutti si allontanavano al nostro passaggio

perfino un bambino che teneva in mano

un bidone di latte alto come le sue gambe

di ferro smaltato viola

e che è scappato vedendoci.

Guardavamo quegli esseri senza volto

ed eravamo noi a stupirci.

Eravamo anche deluse

speravamo di vedere frutta e verdura dai negozianti.

Non c’erano neppure negozi

soltanto vetrine

dove mi sarebbe tanto piaciuto riconoscermi

nelle file che scorrevano sui vetri.

Ho alzato un braccio

ma tutte si volevano riconoscere

tutte alzavano un braccio

e nessuna ha saputo chi fosse.

C’era l’ora all’orologio della stazione

siamo state felici di guardarlo

l’ora era vera

ed eravamo sollevate di arrivare ai silos delle barbabietole

dove andavamo a lavorare

dall’altra parte della città

che avevamo attraversato come un malessere del mattino.

 

realizzato da Angela D’Aprile

Dalla guerra

Leggendo e soffermandoci sulla testimonianza di Goti Bauer è emerso che c'è una enorme differenza nel significato delle parole in base al contesto storico.Durante la II Guerra Mondiale, in particolar modo per i deportati nei campi di concentramento, qualsiasi parola aveva un significato molto doloroso, profondo e malinconico.

La sopravvissuta viveva a Fiume (nell’attuale Croazia) con la sua famiglia, i genitori ed un fratello minore, con le leggi di Norimberga (1935), leggi raziali tedesche, approvate in Italia nel 1938 da Mussolini, vide la sua vita gradualmente “restringersi”, dapprima esclusa dal suo contesto quotidiano, poi i divieti di frequentare i luoghi pubblici, poi la fuga, l’arresto e la deportazione in un luogo a lei sconosciuto.In quel contesto il verbo “proibire” assunse un significato totalizzante, assolutizzante, che cambiò la sua vita per sempre, ben diversi sono i divieti e le regole a cui siamo sottoposti oggi, irrilevanti per il nostro futuro.Nella testimonianza ci colpisce l’uso della parola“selezione” che per la sopravvissuta è impossibile da pronunciare, ancora oggi, poiché al tempo della reclusione forzata faceva la differenza tra la vita e la morte; tutti venivano selezionati appena arrivati nei campi di concentramento, divisi per sesso, per età e i più anziani, le persone dall’aspetto stanco, i malati, (…) venivano direttamente uccisi. Non avevano il tempo di salutarsi, tutto accadeva velocemente e nel terrore. Si evidenzia un episodio nel Lager A, circa un mese dopo la deportazione: un giorno, sentirono al megafono una voce che chiamava ragazze di circa 20 anni che avrebbero potuto lavorare al chiuso, non essendo a conoscenza di ciò che sarebbe successo e patendo il freddo da lungo tempo, in molte sperarono di essere selezionate. Chi non era stata scelta, rimase delusa, ma solo la stessa sera scoprirono che per loro era stata una enorme fortuna, infattile ragazze selezionate erano morte dopo aver fatto da cavia nel blocco degli esperimenti. Selezionate per andare a morire e a tutte le altre spettava riportarne i cadaveri, in silenzio, con la paura e l’orrore per quanto stavano vivendo, tra gli sguardi inorriditi. Molto era affidato agli sguardi, Goti Bauer racconta dell’ultimo sguardo di sua madre prima che le separassero per sempre, lo ricorda ancora oggi in modo nitido. Per tutti loro lo sguardo era carico di significato in quanto rappresentava il massimo possibile, un addio, l’ultimo legame con le persone care. Nello sguardo era racchiuso tutto l’amore e la speranza di rincontrarsi fuori da quelle mura, era l’ultimo gesto che potevano scambiarsi ed era pieno di significato. Al giorno d’oggi lo sguardo assume un significato diverso, è ritenuto un gesto di poco conto, scontato e per giunta sempre più raro. Nella società odierna si preferisce passare più tempo dietro uno schermo che guardare una persona negli occhi, si preferisce ricevere un messaggio piuttosto che uno sguardo, anche se carico di emozioni.

Goti Bauer menziona successivamente "il ricordo" che per loro era un modo per sfuggire dalla realtà quotidiana, un modo per combattere, anche solo in parte, la disumanizzazione alla quale erano sottoposti, era anche un momento di pace dove potevano illudersi di vivere ancora quei momenti felici vissuti prima di arrivare al campo, persino i ricordi più “brutti” erano considerati felici rispetto a quello che stavano vivendo. Oggi per i sopravvissuti ricordare è importante, necessario a non dimenticare affinché non accada mai più. Per noi invece ricordare è un pensiero sempre positivo perché anche se abbiamo vissuto qualcosa di brutto ormai è passato e lo ricordiamo con leggerezza, motivo per cui pensiamo più al futuro che al passato e il ricordo è solo vago.La testimonianza esprime pienamente le sofferenze e il dolore provato durante la deportazione nel campo di concentramento di Auschwitz Birkenau. Il “dovercela fare” a quel tempo era una questione di vita o di morte, nell'intervista,infatti, la Bauer afferma che un diplomatico svedese, Emil de Mistura, quando andò a salutare lei e la sua famiglia il giorno del loro trasferimento per la Stazione Centrale, tranquillizzò la donna dicendole "e tu ricordati qualsiasi cosa succeda, devi farcela", come Goti e la sua famiglia anche tutti gli altri deportati avevano la speranza di dovercela fare, perché altrimenti solo una cosa era possibile: la loro MORTE. Ai giorni nostri molte volte nella nostra vita ci ripetiamo che dobbiamo farcela, ci incoraggiamo, ci motiviamo prima di una prova, un test, un esame, però in effetti un test, un concorso, un esame si può sempre riprovare, magari sbagliando ancora, sappiamo di avere un'altra possibilità di rimetterci in gioco. Pensando ai deportati, ci rendiamo conto chenon avevano altre possibilità: o resistevano o morivano, ridotti pelle e ossa, provati dalla fame, dalla fatica, dalle umiliazioni, dalla solitudine, dalla paura e dal silenzio più brutto, il silenzio della morte.In quel mondo fatto di atrocità un momento di ristoro poteva essere il sonno, tuttavia diventò anche quello una tortura, svegliarsi e passare dal sonno alla veglia e abbandonare il proprio stato di quiete e raccogliere le poche forze per affrontare un altro giorno carico di dolore,tale che forse sarebbe stato meglio non svegliarsi piuttosto che affrontare un altro inferno. Ammassati nelle "koje", tra lo stordimento, la fame e la sete i pensieri sfumavano ci si abbandonava al sonno, un modo per estraniarsi da tutto ciò che stava succedendo e sperare che in fondo fosse solo un brutto sogno. La mattina, alle quattro, la parola"Aufstehen" che in tedesco significa svegliarsi, interrompeva ogni tregua intensificando il dolore.Svegliarsi nel XXI secolo per la maggior parte delle persone significata solo aprire gli occhi dopo aver dormito.

 

realizzato da PIOGGIA ALESSANDRA - NOVIELLIGIORGIA - BASILENICOLO' - LIUZZIASIA - SATICARMEN - ROMANOCLARA

Silenziosamente sapevano tutti di non avere un futuro

Goti Bauer è una sopravvissuta che visse i suoi 19 anni nei campi di concentramento e sin dall’età di 14 anni con l’introduzione delle leggi razziali, sentì nella sua vita insorgere una situazione di disagio: l’allontanamento da parte dei suoi amici nell’ambiente scolastico e la perdita del lavoro di suo padre. Dal 1938, quindi, cominciò a condurre un altro tipo di vita, “da un giorno all’altro le cose sono cambiate e per noi tutto è diventato drammatico” è questa la frase che, per la sopravvissuta, segna l’inizio di una vita difficile, legata solo a proibizioni, alla consapevolezza di non poter progettare il proprio futuro, di non poter sognare come i ragazzi dovrebbero fare ma di dover sempre vivere alla giornata, affrontando i problemi quotidiani e sperando che le cose cambino, migliorino.

Una volta uscita dal campo di concentramento ha voluto testimoniare quella che è stata la sua esperienza e la scrittrice Daniela Padoan della sua testimonianza e di quelle di altre due superstite ne ha fatto un libro, chiamato “Come una rana d’inverno”, dalla cui lettura sono nati spunti di riflessione.

Possiamo notare dalle parole di Goti Bauer come la considerazione della vanità fosse diversa. Ad esempio dopo la promulgazione delle leggi razziali i suoi compagni di classe o anche i genitori dei suoi amici, la allontanano, la guardano con occhi diversi poiché non rispecchiava il “modello della perfezione”. Eppure, entrati nei campi di concentramento nessuno prestava più attenzione al proprio aspetto, entrando in quella realtà tutti persero la propria identità, erano un numero. La vanità si svuotò di significato,infatti, le donne venivano denudate, lavate, rasate e per umiliarle ulteriormente costrette a indossare stracci e scarpe spaiate. L’umiliazione per l’aspetto fisico passava in secondo piano rispetto alla sofferenza morale, tipo la perdita dei familiari. Dunque, NON C’ERA POSTO PER LA VANITA’. Oggi siamo talmente circondati da persone vanitose, colpite dal virus del narcisismo incalzante, che ormai siamo abituati a questo atteggiamento. Il vanitoso, quando ti saluta, dice: «Ciao, come sto?».Il limite, qualsiasi limite, della vanità, salta e l’atteggiamento da piccola e vivace debolezza umana si trasforma in un costante e insopportabile auto-compiacimento e perfino auto-idolatria. Quando trasformiamo la vanità nella nostra cifra umana, nel nostro modo di essere o di guardare dall’alto verso il basso, in uno stile di vita, a quel punto l’Io divora il Noi, lo annulla, e la vanità si associa ad uno spreco di personalità, di completezza. Il vanitoso diventa narcisista e il compiacimento di sé assume il marchio dell’indifferenza, del cinismo. I ragazzi al giorno d’oggi hanno costantemente bisogno di sapere come li considerano gli altri e che opinione hanno di loro, tuttavia, cercano di nascondere questo bisogno e manifestano indifferenza nei rapporti umani, mostrando, di contro, interesse per i social, primo scenario nel quale sono soliti esibirsi.

Anche i gesti assumono diversi significati a seconda dei contesti, ad esempio, cosa c’è di più piacevole di una carezza? Eppure oggi ha perso il suo valore, appare un gesto vuoto, quando riceviamo una carezza dalle nostre madri abbiamo l'istinto di sottrarci poiché lo riteniamo segno di debolezza oltre al fatto che viene recepito come troppo femminile o troppo intimo, sembra che questa allergia alla carezza ci arrivi dall'antichità, quando se un uomo alzava la mano verso un altro era sicuramente un gesto di aggressione.Nell’esperienza della Bauer, la carezza,aveva un significato prezioso, tanto che in essa i bambini si sentivano protetti dalle loro madri, le quali,invece, vivevano quel momento con grande intensità e angoscia, perché se da una parte speravano di rivedere i loro figli, dall’altra avevano la consapevolezza di averli persi per sempre. Silenziosamente sapevano tutti di non avere un futuro.

Goti Bauer stessa fa un confronto fra la sua gioventù e la nostra, libera e piena di stimoli, in effetti, le proibizioni che noi conosciamo e che definiamo come tali sono irrilevanti. Il “no” di un genitore, di certo non limita le possibilità per la nostra vita futura, le attuali proibizioni sono delle piccolezze che noi ragazzi tendiamo adingigantire perché non abbiamo termini di paragone, non conosciamo realmente le proibizioni, le umiliazioni, la fame, oggi patiamo le regole, i consigli ma per fortuna le atrocità e le proibizioni di cui parla la sopravvissuta sono una dimensione lontana da noi.

Nei campi di concentramento non c’era futuro…i malati, i vecchi, i bambini venivano tutti uccisi all’inizio. La stessa madre di Goti Bauerche era molto angosciata e affaticata dal viaggio, venne condotta dalla parte opposta rispetto a lei e in quell’istante le rivolse uno sguardo pieno d’amore ma allo stesso tempo malinconico perché ormai aveva compreso il suo triste destino. In quello sguardo c’era tutto quello che ancora oggi la parola “SGUARDO” significa per lei, rimanda al ricordo della madre da cui fu subito separata.Noi pensiamo che lo sguardo sia una caratteristica molto importante di ogni persona, è la vera essenza dell’anima, una sorta di specchio in cui poter cogliere l’altro, anche senza parole, riflette in maniera immediata le nostre emozioni, le nostre paure, le nostre sfumature emotive più intime.Dall’occhio e dal suo sguardo si ha un accesso diretto a una dimensione molto intima. Si dice che uno sguardo valga più di mille parole e in effetti, con gli occhi non solo guardiamo ma, più e meglio che con il linguaggio, comunichiamo stati d’animo e manifestiamo il nostro carattere. Ecco allora che diventa significativa la direzione dello sguardo, la sua intensità, sappiamo come e perché stiamo guardando una persona in un certo modo, mentre altri aspetti del linguaggio del volto e del corpo possono ingannarci.

Nella testimonianza della Bauer leggiamo: “la mia storia era diversa, Liliana o Giuliana sapevano esattamente dove tornare; io mi sentivo completamente sradicata dal mondo”. Questa frase ci fa comprendere quanto fu difficile, anche quando tutto fu finito, lei era un’anima vagante in mezzo a tante altre, senza più nessuno che l’aspettasse e pensava a sopravvivere per poter raccontare quelle atrocità, quel vuoto, quella solitudine. La certezza di non avere più nessuno “portava ad uno stato di depressione da cui non c’era via d’uscita”.

Questo e molto altro hanno dovuto sopportare e superare. Noi, si spera, non dovremo conoscerlo mai a pieno, se non dalla forza di persone che hanno avuto il coraggio di spiegarcelo. Molte cose sono cambiate e tra queste anche lo stesso modo di utilizzare i termini, il significato che a questi affidiamo. La parola “solitudine” ci fa riflettere, nel periodo storico di cui abbiamo parlato, questa assumeva il significato di completo e forzato isolamento dalla realtà, dalla famiglia, dalla propria terra. Nella società moderna è ormai difficile parlare di solitudine vera e propria, perché estraniarsi dal mondo è diventato quasi impossibile a causa dei social network e dei cellulari. La solitudine dell’uomo moderno è più che altro uno “status mentis”, una condizione psicologica che non per forza corrisponde a verità. I social, di cui ormai quasi tutti fanno uso, sono dei mezzi di comunicazione e condivisione che ci portano ad estraniarci da ciò che ci circonda per farci entrare in un mondo nuovo che sembra, almeno in apparenza, essere fatto su misura per noi. La realtà quindi è che mentre Goti è stata costretta ad abbandonare la realtà, oggi ci si rinuncia per volontà propria.  Questo sentimento però non è dovuto solo alla tecnologia odierna, ma anche alle relazioni finite in modo doloroso che lasciano dentro un sentimento di fondo condizionante. Ci sentiamo soli ignorando che c’è sempre una via per ricominciare da capo. Per la nostra sopravvissuta questa opportunità è arrivata dopo anni e dopo tanta sofferenza ma nonostante tutto ha trovato il modo di andare avanti, senza mai dimenticare ciò che è stato il passato.

Oggi siamo così abituati alla facilità delle cose che non riusciamo più a scorgere le soluzioni di semplici problemi e nello stesso tempo tralasciamo particolari importanti del nostro quotidiano come uno sguardo, una carezza o la compagnia di una persona amica. Ciò che abbiamo perso è la profondità, fatta a questo punto di frasi già dette e urlate a squarciagola senza che ne si capisca il vero significato.

3B – lavoro di: Milano Angela, Di Ronzo Rebecca, Maselli Martina, Mininni Erika, Ivascencu Alexandra, Acquasanta Samira

Spunti di riflessione

Leggendo la testimonianza di Goti Bauer:

“Mi ricordo il suo ultimo sguardo quando si è girata mentre stava andando di là”

Un’azione durata pochi secondi,ma intrisa di forti emozioni. Lo “SGUARDO” con il passare del tempo ha assunto un significato molto diverso. Nel periodo specifico della shoah tale azione corrispondeva ad un concetto profondo legato alle emozioni.Neicampi di concentramento gli sguardi erano molto intensi e per molti significava l’ultimo sguardo l’ultima volta che due persone si sarebbero incontrate o riviste. L’importanza dello sguardo si può notare proprio dall’esperienza della protagonista, la quale vive con angoscia e incertezza la possibilità di poter rivedere sua madre dopo il “saluto definitivo”. Al giorno d’oggi lo sguardo è molto più superficiale a volte ci vergognavamo di uno sguardo tenero rivoltoci da un nostro genitore, lo reputiamo insignificante e infantile, non gli diamo il giusto peso, lo svalutiamo continuamente.

Secondo la sopravvissuta dovremmo riflettere sul concetto di “RICORDO” perché serve a non dimenticare ciò che hanno provato le persone nei campi di concentramento, ricordandone il dolore e quanto hanno subito e provato sulla loro pelle, possiamo evitare che tali tipi di brutalità e atrocità si ripresentino. Durante la permanenza nei campi di sterminio il ricordo della vita di prima, della vita felice e spensierata, con i propri cari, all’insegna della libertà, serviva ad estraniarsi dalla brutalità di quel vivere che più che altro era un sopravvivere. Oggi non dovremmo dimenticare quanto avvenuto in passato per non commettere gli stessi errori.

 realizzato da Lamorgese Davide,Posa Alessio, Mangiallardo Giuseppe, Leo Daniele, Serra Carlo,TafuniFrancesco,Di Bello Andrea, Rongo Adriano

In occasione della Giornata della Memoria alcune classi del liceo scientifico “R.Canudo” hanno curato la lettura del libro “Come una rana di inverno” di Daniela Padoan, in particolare l’intervista fatta all’attuale senatrice a vita Liliana Segre nella quale espone la sua esperienza nel KZ di Auschwitz tra il 1944 e il 1945.

“La donna è più preparata alla sofferenza[…], mentre dal punto di vista fisico, sicuramente l’uomo aveva più forza”: così la Segre ha espresso il suo parere riguardo la condizione della donna e il differente approccio allo spirito di sopravvivenza nei due sessi nei campi di concentramento,ma confessa di aver visto donne delle SS essere più crudeli dei soldati tedeschi, nonostante fossero accomunate alle prigioniere dall’ innato istinto materno.

Questo abusi non sono rimasti confinati nei campi di concentramento, ma hanno sempre caratterizzato la storia dell'umanità a partire dalle origini sino a oggi. Molti sono gli autori che hanno trattato questo tema, esempio è Charlotte Brontë, la quale denuncia la sottomissione della donna e l'impossibilità di poter aspirare ad un'indipendenza economica e di pensiero; così le prigioniere dei campi erano ridotte ad una condizione di schiavitù e annullamento della propria mente e del corpo. Oggi queste violazioni avvengono continuamente attraverso il fenomeno del body shaming e la rinuncia al diritto di maternità pur di ottenere opportunità lavorative pari a quelle degli uomini.

Per non parlare del sempre più diffuso fenomeno del femminicidio, emblema della difficoltà di accettare l'uguaglianza fra uomo e donna all'interno della società.

La stessa Segre ha ricevuto numerose minacce e ammette che la decisione di diventare testimone della Shoa è maturata dopo un periodo di lungo silenzio in cui ha cercato di rifugiarsi nella finta normalità, ma poi il punto di svolta: testimoniare per riportare in vita la memoria di  chi non è sopravvissuto alle crudeltà dei luoghi di sterminio. E’ importante, prosegue, raccontare nelle scuole e ai giovani quanto un’esperienza così forte abbia condizionato il suo approccio alla vita e trasmettere l’ essenzialità di cogliere la serietà di un argomento spesso oggetto di riso da parte di alcuni studenti durante le sue conferenze.

L’ultima parte è riservata agli affetti dei suoi tre figli: Alberto, primogenito al quale ha dato il nome del tanto amato padre, unica costante in un’infanzia e un’adolescenza piena di sofferenze; Luciano con il quale ha una maggiore affinità elettiva e infine sua figlia Federica. Con lei ha da sempre avuto un forte legame e ha condiviso il dolore di una ferita non rimarginabile, insinuandole un senso di protezione nei confronti della madre. Comprendere il suo dolore l’ha portata a fondare l’associazione “Figli della Shoa” tramite la quale sostiene coloro che affrontano quotidianamente il dolore dei propri cari, sopravvissuti e testimoni per l’umanità.

realizzato da Federica Donata Bradasci, Marina Dongiovanni  

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